SILVIO PELLICO - LE MIE PRIGIONI

Silvio Pellico pubblicò nel 1832 "Le mie prigioni" nel quale si raccontano l'arresto , la vita nel carcere e la liberazione. Questo libro ebbe un'eccezionale diffusione in Italia e all'estero e, si disse, danneggiò l'Austria più di una guerra perduta.
Alcune pagine dall'opera:
"Il vivere libero è assai più bello che il vivere in carcere; chi ne dubita? Eppure anche nelle miserie di un carcere, quando vivi si pensa che Dio è presente, che le gioie del mondo sono fugaci, che il vero bene sta nella coscienza e non negli oggetti esteriori, puossi con piacer sentire la vita. Io in meno di un mese aveva pigliato, non dirò perfettamente, ma in comportevole guisa il mio partito. Vidi che non volendo commettere l'indegna azione di comprare l'impunità col procacciare la rovina altrui, la mia sorte non poteva essere se non il patibolo o una lunga prigionia. Era necessario adattarvisi.
-Respirerò finchè mi lasciano fiato, dissi, e quando me lo torranno, farò come tutti i malati, allorchè son giunti all'ultimo momento. Morrò.
Mi studiava di non lagnarmi di nulla, e di dare all'anima mia tutti i godimenti possibili. Il più consueto godimento era di andarmi rinnovando l'enumerazione dei beni che avevano abbellito i miei giorni: un ottimo padre, un'ottima madre, fratelli e sorelle eccellenti, i tali e tali amici, una buona educazione, l'amore delle lettere, ecc. Chi più di me era stato dotato di felicità? Perché non ringraziare Iddio, sebbene ora mi fosse temperata dalla sventura? Talora facendo quell'enumerazione m'inteneriva e piangeva un istante, ma il coraggio e la letizia tornavano.
Fin da' primi giorni io aveva acquistato un amico.
Non era il custode, non alcuno de' secondini, non alcuno de' signori processanti. Parlo per altro d'una creatura umana. Chi era? Un fanciullo, sordo e muto, di cinque o sei anni. Il padre e la madre erano ladroni, e la legge li aveva colpiti. Il misero orfanello veniva mantenuto dalla polizia con parecchi altri fanciulli della stessa condizione. Abitavano tutti in una stanza in faccia alla mia, ed a certe ore aprivasi loro la porta, affinchè uscissero a prendere aria nel cortile.
Il sordo e il muto veniva sotto la mia finestra, e mi sorrideva, e gesticolava. Io gli gettava un bel pezzo di pane: ei lo prendeva, facendo un salto di gioia, correva a' suoi compagni, ne dava a tutti, e poi veniva a mangiare la sua porzioncella presso la mia finestra, esprimendo la sua gratitudine col sorriso dei suoi begli occhi.
Gli altri fanciulli mi guardavano da lontano, ma non ardiano avvicinarsi; il sordo-muto aveva una gran simpatia per me, né già per sola cagione d'interesse. Alcune volte ei non sapea che fare del pane che io gli gettava, e mi facea segni ch'egli e i suoi compagni avevano mangiato bene, e non potevano prendere maggior cibo. S'ei vedea venire un secondino nella mia stanza, ei gli dava il pane perché me lo restituisse.
Benchè nulla aspettasse allora da me, ei continuava a ruzzare innanzi alla finestra con una grazia amabilissima, godendo ch'io lo vedessi. Una volta un secondino permise al fanciullo d'entrare nella mia prigione; questi appena entrato, corse ad abbracciarmi le gambe, mettendo un grido di gioia. Lo presi fra le braccia, ed è indicibile il trasporto con cui mi colmava di carezze. Quanto amore in quella cara animetta!
Come avrei voluto poterlo far educare, e salvarlo dall'abbiezione in che si trovava!
Non ho mai saputo il suo nome. Egli stesso non sapeva di averne uno. Era sempre lieto, e non lo vidi mai piangere se non una volta che fu battuto, non so perché, dal carceriere. Cosa strana! Vivere in luoghi simili sembra il colmo dell'infortunio, eppure quel fanciullo aveva certamente tanta felicità, quanta possa avere a quell'età il figlio d'un principe.
Io facea questa riflessione, ed imparava che puossi rendere l'umore indipendente dal luogo..
"

(Cap. Settimo Da LE MIE PRIGIONI di Silvio Pellico - Stamperia Reale G.B. Paravia Torino 29 - XI 900)